di Sergio Durante
(Ristampa)
Il 30 luglio del 1770 entrava in una torrida Padova il musicografo inglese Charles Burney, in viaggio per documentare lo stato attuale della musica in Europa. Ne sarebbero uscite delle memorie di viaggio rimaste famose. Annotava in quella data che “in questi ultimi anni il soggiorno del celebre compositore e violinista Giuseppe Tartini ha reso questa città non meno famosa che nell’antichità per essere stata il luogo natale del grande storico Tito Livio”. Tartini era morto nel febbraio precedente e l’inglese si dovette limitare nel suo pellegrinaggio musicale a visitarne la sepoltura (nella chiesa di S. Caterina d’Alessandria) e a raccogliere testimonianze dagli amici; ma la sua narrazione restituisce il senso della fine di un’epoca in cui la città era divenuta un centro di interesse musicale continentale.
Intanto, in altra parte d’Europa, Maria Magdalena Keverich, sposa ventunenne di Johann van Beethoven stava portando avanti la sua seconda gravidanza, dopo aver perso l’anno prima un bimbo di nome Ludwig Maria al suo sesto giorno di vita: questa sarebbe andata a miglior fine con la nascita di un altro Ludwig, il nostro, battezzato il 17 dicembre dello stesso anno.
Una morte e una nascita che segnano due epoche molto diverse, e non solo dal punto di vista musicale. Mentre Tartini rappresenta una delle più alte espressioni della musica strumentale settecentesca nelle forme del concerto solistico e della sonata, con Beethoven viene portata ad un nuovo vertice la forma sinfonica ed il suo strumento principale, l’orchestra moderna.
Mentre in Tartini l’espressione musicale tende all’imitazione di quella letteraria (sono noti i ‘motti’ poetici coi quali intestava i suoi manoscritti di composizione), si afferma con la generazione a cavallo fra i due secoli l’idea che l’arte dei suoni abbia una sua completa autonomia e superi addirittura la letteratura nella capacità di attingere alla sfera di ciò che è indicibile con i soli mezzi verbali. Due mondi ben lontani fra loro anche nel rapporto del compositore con la propria opera, se si considera che mentre Tartini scrisse circa 140 concerti per il proprio strumento, Beethoven si limitò a 5 per il suo pianoforte; il che segnala un passaggio epocale da un concetto primariamente quantitativo del lusso (e la musica, prima dell’avvento della riproduzione tecnica, è indubitabilmente un articolo di lusso) a quello qualitativo.
E’ singolare che lo stesso Burney sia autore, 34 anni dopo la visita a Padova, di un commento sul musicista di Bonn che fa simbolicamente da ponte fra le due epoche: “Baythoven (sic), un discepolo di Mozart, sta ora conquistandosi una così rapida notorietà che non si rischia molto pronosticando che, se vivrà, sarà il più grande musicista di questo secolo, così come Haydn e Mozart lo sono stati sullo scorcio di quello passato. Si dice che sia giovane; eppure scrive con la libertà e l’audacia che derivano da una lunga esperienza, e con una ricchezza inventiva che lascia supporre risorse inesauribili”.
Una previsione che si sarebbe avverata oltre le aspettative, in quanto con Beethoven viene in luce non solo una produzione musicale di straordinario valore, ma l’idea stessa della monumentalità autoriale, del genio musicale romantico. Una rappresentazione che ha avuto effetti duraturi non solo rispetto a Beethoven ma in generale, nel modo stesso di raccontare la Storia della musica in Occidente. In pratica, ancora oggi e a dispetto dei tempi cambiati, la storia è immaginata prevalentemente come una lunga processione di personaggi ‘geniali’ che passano il testimone del progresso musicale di generazione in generazione. Questa rappresentazione, non interamente falsa ma troppo semplice per essere vera, è sopravvissuta ben oltre la fine del Romanticismo eroico che l’aveva generata, e prospera ancora oggi nell’ambito della musica commerciale di grande distribuzione con la messa a punto ‘scientifica’ di personaggi-feticcio, sempre più grandi del vero (si chiama marketing).
Se la grandezza si misura anche con l’effetto nel tempo, non c’è dubbio che Tartini e Beethoven abbiano lasciato un segno permanente (almeno quanto la tradizione della musica d’arte), ma la Storia può essere raccontata anche in termini diversi e non meno interessanti. Per esempio, come è cambiato il modo di concepire la musica nei quarant’anni che separano la morte di Tartini dall’affermarsi – non incontrastato al suo tempo, come si vedrà più sotto – di Beethoven? E in che modo questi cambiamenti toccarono la Repubblica Veneta, di cui Tartini non avrebbe potuto immaginare la fine imminente ma che nel 1827 obbediva allo stesso sovrano di Beethoven? La circostanza più evidente è che Venezia e il suo territorio passarono dalla condizione di centro a quello di periferia del mondo musicale, con tutte le implicazioni di ordine economico e culturale che il tormentato periodo napoleonico portò con sé. Se ai tempi di Tartini accorrevano a Padova allievi da tutta Europa, nel primo Ottocento i musicisti locali cercavano modelli in altre direzioni: soprattutto Vienna, la capitale. La grande tradizione strumentale italiana che aveva primeggiato da Vivaldi a Tartini esaurì la sua funzione storica così come declinò la forza economica delle istituzioni di riferimento: i grandi santuari come quello antoniano e i conservatori, che patirono gravemente le devoluzioni napoleoniche, i teatri indeboliti dal policentrismo caratteristico della penisola. E’ ben vero che l’Italia continuò a produrre melodramma più di ogni altro paese d’Europa ma la qualità fu sempre più raramente all’altezza della quantità perché ogni città piccola o grande che sia esigeva il suo melodramma, a dispetto dei mezzi insufficienti.
La musica strumentale in particolare soffrì da un lato il declino economico della classe sociale di riferimento, l’aristocrazia, mentre non guadagnò un nuovo pubblico a causa del relativo ritardo – rispetto ad altri paesi d’Europa – dell’accumulazione capitalistica nostrana. E tuttavia la musica strumentale nel Veneto non scomparve del tutto sebbene sia oggi ignorata dai manuali di Storia della musica: resta confinata in un’area marginale rispetto alla ‘grande musica’ continentale.
Qualche anno fa si tenne proprio a Padova un convegno sulla musica strumentale nel Veneto fra Settecento e Ottocento che intendeva illuminare le profonde radici storiche di un’istituzione come OPV.[1] Le ricerche portarono in luce un mondo musicale di ricchezza insospettata fino ad allora e poco visibile perché collegato soprattutto al consumo privato. Famiglie dell’aristocrazia che si riconobbero nel nuovo ordine austriaco (almeno fino agli anni ‘40 dell’Ottocento) e che certamente ne apprezzavano i portati culturali, con speciale riferimento alla musica. L’astro principale, nel Veneto come nel resto d’Europa, non fu Mozart (né Beethoven), ma soprattutto Haydn, diffuso grazie all’industria della stampa musicale viennese. Mentre si compera musica da consumare nelle occasioni domestiche, se ne compone anche, ad imitazione dei modelli settentrionali (ma fino ad un certo punto). Un musicista oggi pressoché dimenticato ma degno di attenzione, Marco Antonio Sumàn, scrive nel 1801 una serie di sei quartetti per archi che insieme a quelli di Gaetano Valeri, organista al Duomo di Padova, rappresenta il contributo locale più significativo al rito, musicale e sociale insieme, del quartettismo. Certo la cifra stilistica è diversa: i temi e gli intrecci contrappuntistici più semplici assomigliano a quelli settentrionali, finché poi non si arriva al cuore della composizione cioè agli sviluppi caratteristici della forma-sonata. Qui le strade si separano; forse, si può malignare, per una insufficienza tecnica dei compositori nostrani ma probabilmente anche per ragioni più profonde, vale a dire il rifiuto estetico di una costruzione che va oltre la trasparenza delle strutture fraseologiche semplici per inoltrarsi, nelle espressioni più mature, in strutture compositive di profondità abissale. In altre parole, il quartettismo di Haydn e Mozart, che venne successivamente definito ‘esoterico’ viene sì praticato nelle sale da musica del Veneto, ma per i compositori locali l’imitazione si restringe al suonare insieme a quattro, senza attingere agli strati più essenziali delle musizieren viennese. Insomma, il quartetto ‘veneto’ (che poteva vantare come predecessore, certamente dimenticato, le sonate a quattro del vecchio Tartini) è piacevole, scritto competentemente, ma non vuole essere ‘troppo’ impegnativo, né per chi lo suona, né per chi lo ascolta.
Se al quartetto bastava per l’esecuzione un gruppo di amici (non essendo destinato al concerto pubblico, almeno fino a tutto il Settecento), la penetrazione in Italia della musica sinfonica pose qualche problema in più perché richiedeva una costosa, valida orchestra, e un direttore (figura quest’ultima che nemmeno esisteva al tempo di Tartini o Vivaldi, quando il primo violino reggeva le sorti dell’insieme come “capo di concerto”).
Le ricerche sulle fonti padovane (in particolare sull’importante fondo di manoscritti del “Teatro nuovo”, oggi al Conservatorio “Pollini”) hanno dimostrato che più di un movimento sinfonico viennese è stato ascoltato per la prima volta nei panni di sinfonia d’apertura per un ballo teatrale. E’ questo il caso dell’Ouverture del Flauto magico di Mozart ascoltato a Padova in apertura di un ballo nel 1809; quello che i manoscritti non dicono (e la stampa del tempo tace) è se il pubblico locale sapesse chi era l’autore di quella musica straordinaria.
Anche le sinfonie di Beethoven arrivarono ‘travestite’ nelle riduzioni per pianoforte o pianoforte a quattro mani e solo successivamente nella veste orchestrale. La prima esecuzione nota del Beethoven sinfonico risale al 28 gennaio del 1816 con l’esecuzione della Seconda sinfonia al Teatro La Fenice. La Gazzetta privilegiata (portavoce del governo ormai austriaco) ne riferiva in questi termini: “ Gli applausi vivissimi […] furono in parte accordati anche agli altri accessorj dell’Accademia [cioè: concerto] meritevoli pure di non volgar lode, essendo essa composta dei più scielti professori di musica tutt’ora esistenti in questa nostra città. Basta indicare come direttore d’orchestra il sig. Camerra, per violoncello il sig. Bertoja, per primo contrabbasso il sig. Forlico padre, che senza andar più oltre, s’avvede ognuno con quanta esattezza e spirito musicale doveva essere eseguita una quanto difficile altrettanto superba gran sinfonia del maestro Beethoven. Questo magnifico pezzo di musica, composto sullo stile delle grandi sinfonie d’accademia di Haydn, non poteva essere meglio eseguito; poteva però essere meglio gustato, ove il gusto generale, meno delicato del nostro, preferisse alla dolce melodia d’un ritmo facile e blando il robusto ed energico scrivere dei compositori oltremontani. Se il gusto universale però non trovò tutto il suo pascolo nella sinfonia di Beethoven, lo trovò bensì la ragione degli intelligenti, di cui abbonda questo paese”.[2]
Già in questa prima comparsa di un brano complessivamente tradizionale (che si sarebbe detto dell’Eroica?) si delinea una contrapposizione di gusto divenuta col tempo luogo comune: musica per ‘intelligenti’ (cioè esperti) rispetto a musica ‘facile’. Di lì a vent’anni un sensibile osservatore, Giuseppe Mazzini, avrebbe caratterizzato con maggiore acume le differenze fra cultura musicale Italiana e tedesca nella sua Filosofia della musica, pubblicata a Parigi nel 1836: “[…] mentre la melodia italiana definisce, esaurisce, e t’impone un affetto, essa [la tedesca] lo affaccia velato, misterioso, appena tanto che basti a lasciarti una memoria e il bisogno di ricrearlo, di ricomporre da per te quella immagine. L’una ti trascina a forza fino agli ultimi termini della passione, l’altra t’accenna la via e poi ti lascia”.
Un’astrazione, certo, ma anche un tentativo di cogliere aspetti culturali profondi. Per Mazzini le due culture musicali principali d’Europa dovevano tendere necessariamente alla sintesi in una musica “europea” presagita nel futuro.
A quel momento, la musica di Tartini non era più eseguita nel continente, fatta eccezione per le variazioni didattiche dell’Arte dell’arco o per la sonata in Sol minore Trillo del diavolo (non la sua migliore). Tanto più significativo che quel nostro padre della patria ricordi il nome del grande piranese, unico con Pergolesi e Porpora, come simbolo dei più alti traguardi musicali italiani del secolo trascorso.
[1] La musica strumentale nel Veneto fra Settecento e Ottocento (Atti del convegno internazionale di studi, Padova 4-6- novembre 1996), a cura di L. Boscolo e S. Durante, Padova, Cleup 1998.
[2] Cit dal saggio di M. Girardi, Musica strumentale e fortuna degli autori classici nell’editoria veneziana fra Settecento e Ottocento, in La musica strumentale cit., pp. 479-526: 513.